I reati inesistenti

pubblicato da Giulia venerdì, Agosto 31, 2007 14:27
Aggiunto alla categoria Target du jour, Triste mondo malato
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Il mobbing non è reato. Lo ha confermato la Cassazione qualche giorno fa, ribadendo l’ovvio: un comportamento identificato, stigmatizzabile, con un profilo precisissimo e piuttosto diffuso non è un reato secondo il nostro codice penale. Insomma, per rivalersi sui datori di lavoro o colleghi prepotenti è necessario avviare una causa civile che, secondo gli esperti dei sindacati, è difficilissima da vincere. Provare le accuse è molto arduo, soprattutto se si è già abbandonato il posto di lavoro; e Dio salvi il mobbizzato che decida di far causa mentre è ancora impiegato nell’azienda in questione.

Il mobbing non è l’unico reato inesistente. In Italia, lo stalking manca di un profilo penale preciso, eppure molti di noi, soprattutto donne, sanno quanto possa essere stressante e limitante essere perseguitati. Telefonate, appostamenti fuori casa, e-mail, commenti e post ingiuriosi su siti e forum: secondo il nostro codice penale, si può intervenire significativamente solo in presenza di minacce fisiche, e il massimo che si può fare (in caso di e-mail ingiuriose, ad esempio) è segnalare la cosa al provider del persecutore, che rischia sanzioni pecuniarie pesantissime. Aggiungiamo che l’82% delle persone vittime dello stalking sono donne, e si comincia a capirci qualcosa di più. Saranno sì e no quarant’anni che le donne hanno cominciato a conquistarsi un posto in società vivendo da sole, lavorando, magari non sposandosi. Prima, si viveva con i genitori o con il marito, raramente si usciva non accompagnate, e lo “zitellaggio” era il più grande spauracchio. Questo per dire che, per quanto prigioniere, eravamo leggermente meglio difese. Magari poi la violenza avveniva in casa, ma difficilmente uno sconosciuto poteva avvicinarsi e importunare una signora o signorina senza essere intercettato e punito dai maschi di famiglia. C’era ancora il delitto d’onore, figurarsi se un paio di cazzotti avrebbero avuto l’attenzione delle forze dell’Ordine.
Adesso siamo libere, ed esposte: possiamo essere perseguitate via telefono, nei luoghi pubblici, ovunque decidiamo di essere presenti. Spesso – troppo spesso – il persecutore non si limita alle parole, e passa ai fatti. Nessuna minaccia preventiva: si presenta, tira fuori coltello o pistola, e uccide. Poi si piange, ma il danno è fatto. E la legge non poteva proteggere la vittima, perché in Italia si preferisce dire “Su, su, ignoralo, prima o poi si stufa” oppure “Che te ne frega?”
Non a caso si dice “mobbing” e “stalking”: in Italia non esistono nemmeno le parole per definire la persecuzione. Viene da pensare che gli italiani siano un popolo stoico, abituato a sbrigarsela, a venire alle mani se necessario, oppure a sopportare. Anche quando la sopportazione passa il segno e diventa depressione, malessere, rabbia.

Mobbing e stalking non sono gli unici comportamenti dannosi che mancano di un profilo penale. Anche la violenza domestica non ha un trattamento specifico: si preferisce ignorarla, oppure assimilarla ad altre forme di violenza privata, anche se è certo che fa più vittime del cancro fra le donne europee. Ed è infinitamente più difficile da combattere, e molto più dolorosa della violenza ricevuta da uno sconosciuto. Uno sconosciuto rimane tale, ma la violenza subita da un familiare o da un partner ha un carico di vergogna, impotenza e fiducia tradita per cui le vittime non vengono adeguatamente risarcite.

Siamo cambiati, e sono cambiati anche i modi in cui riusciamo a farci del male. E’ giusto che chi fa le leggi ne tenga conto.

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