pubblicato da Giulia domenica, Settembre 14, 2003 2:36
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La cialtrona va alla Biennale

Non mi ricordavo di soffrire il mal di mare. Me ne dimentico sempre perché, essendo terricola, in barca ci sono andata sì e no cinque volte in tutta la mia vita, ogni volta stando malissimo, al punto che anche mentre digito questa frase mi gira la testa. I traghetti producono in me una simulazione di primo trimestre di gravidanza: vertigini, senso di nausea, difficoltà a stare in piedi (ma se sto nelle cabine è peggio, perché mi manca l’aria). Mentre stavo arrivando alla stazione, Damir mi ha telefonato e ha detto: prendi il traghetto e vieni direttamente all’Arsenale, ci vediamo lì. OK, ho detto io, sentendomi avventurosa. Mai preso un traghetto da sola. Vediamo se riesco a perdermi.

Trenta minuti di rollìo, beccheggio, hola e dondolamenti vari si espandono fino a sembrare un paio d’ore. All’Arsenale barcollo giù dal traghetto su per il ponte e verso il teatro tenendomi lo stomaco. Never a-fucking-gain… naturalmente, sono in ritardo per il primo concerto, Damir è già entrato e io opto per una passeggiatina.

La Biennale della Musica è un evento molto scìc, da veri intenditori e intellighenzia nazionale. Sono qui per portare un po’ di sana cialtroneria e scetticismo. No, balle, sono qui perché Damir ci è stato mandato da uno dei tanti giornali per cui scrive, e io adoro portare la mia incompetenza al cospetto della sua suprema competenza in materia musicale. E poi non lo vedo mai. Spettegolare dal vivo è infinitamente meglio che al telefono.

Esploro i dintorni dell’Arsenale tenendo la macchina fotografica a portata di mano. Questa è una zona in cui non sono mai stata, qui Venezia ridiventa città con i suoi abitanti, i suoi negozi e una vita, e smette di essere soltanto cartolina per turisti giapponesi e inglesi (questi ultimi una marea: miracoli della RyanAir). Ci sono panni Non un centimetro di menostesi da un lato all’altro delle calli in cui mi infilo per curiosità e per vedere dove portano, c’è odore di minestrone, ci sono bambini che giocano e volantini di palestre. Ho un’ora per non perdermi, calmare il mio stomaco e osservare la gente intorno a me.
Due ragazzi sulla trentina, per esempio:
“Intendi ‘Di àders’?”
“Ma no, intendo il film con Nicole Kidman.”
“Eh, ‘Di àders’.”
“Ma no, ‘Di àuars.”
“Ma io sto divendo quello con Nicole Kidman.”
“Eh, c’è Nicole Kidman anche lì.”
“Io dico quello con Susan Sarandon…”
“Allora è ‘Di àuars’.”
(Susan Sarandon, in The Hours, non c’era. Giusto per la cronaca.)

Entro all’Arsenale per la seconda esibizione del pomeriggio, quella di David Moss. Damir esce dal backstage e mi raggiunge, e in perfetto silenzio (sbigottito, il mio; entusiasta, il suo), assistiamo alla performance.
Devo precisare che a Damir il concerto è piaciuto. “Dai, di’ che è stato bello”. Beh, insomma, un paio di volte mi ha persa. L’arte di David Moss è il risultato di una collisione fra Mel Blanc, Charlie Adler (avete mai visto Cow and Chicken in originale?), l’opera omnia di Luciano Berio, Laurie Anderson e Dario Bandiera. Voce, percussioni, rumori e ironia. Moss ha un’intera orchestra sinfonica nella laringe: certi acuti che lancia ricordano da vicino Cecilia Bartoli.
Si accendono le luci e io ho due cose da dire:
Eh sì, fa ridere.“Vecchio, perché ogni volta che vado a vedere un concerto con te mi trovo davanti un omino che fa cose strane con la voce?”
(Estate 2002, Londra, Fabric, omino beat-box, ammetto di essermi divertita di più.)
“Certo che una maglietta con scritto Protect me su di te è veramente uno statement ironico.”
(Viene fuori che è una maglietta d’annata dei Casino Royale. Fa ridere lo stesso, però.)

Mi accodo per l’intervista a DJ Olive, sorridendo come una valletta per mascherare il fatto che non dovrei essere lì. Si mette a piovere. Troviamo DJ Olive nel retro del retro del retro del teatro Le Tese. Mentre Damir lo intervista, io spettegolo con i tecnici sulle abitudini fumerecce di un certo gruppo italiano che resterà innominato, ma che i due mi giurano “Mai visto degli sfattoni del genere”. Si beve vino (buono). Mi sento molto introdotta. Alè.

E piove.

Dopo avere spiegato a DJ Olive in cosa consista un phoon (la cialtrona non è tale se non dà spettacolo), usciamo sotto l’acqua e cerchiamo rifugio dentro uno di Il tubo, il tubo l'ho capito.quei comodissimi tubi di metallo attualmente sparpagliati in giro per Venezia, che contengono la lista degli artisti e degli eventi della Biennale. Comodissimi perché non ci piove dentro, mentre fuori diluvia. Abbiamo fame e abbiamo fatto troppo tardi per vedere il concerto delle otto e mezza, per cui la tappa successiva è il ristorante davanti al teatro, dove io riesco a spalmarmi interamente la faccia con il nero di seppia degli spaghetti. Me lo fa notare il cameriere. “Non te l’ho detto perché faceva tanto trucco darkettone” si giustifica Damir.
Eh, beh.

Ora di andare. Cammino per un pezzo sotto la pioggia in mezzo ai turisti. Qua e là intravedo gente in abito da sera che cerca di salvare l’orlo dello smoking e le scarpe di Prada dalle pozzanghere in cui io paciugo indifferente, tanto ormai ho i jeans bagnati fino a metà polpaccio. Faccio un conto del tempo che mi ci vuole ad arrivare alla stazione, e decido di ritentare il traghetto. Dita incrociate.

(Ecco che mi gira di nuovo la testa: mi basta scrivere “traghetto” per rivivere tutti i sintomi della prima traversata.)

Sopravvivo.

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