Maledetto Primavera

pubblicato da Giulia mercoledì, Giugno 6, 2007 16:30
Aggiunto alla categoria Muziek non stop
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No, in realtà ci siamo divertiti. Ma tanto. Però ci siamo anche stancati. Ma tanto. Perché la roba da vedere era veramente tanta, ma tanta. E alla fine ci vorrebbero tre post, lo so: e ne farò uno solo, con le cose che mi vengono in mente, in prima battuta, e se mi dimentico qualcosa è memoria selettiva e non c’è niente da fare.

Persi gli Herman Dune causa coda, il primo giorno si finisce quasi direttamente fra le braccia respingenti dei Melvins. Che a stare troppo vicino al palco ti fanno sanguinare le orecchie. Poi c’è il gran karaoke baraccaus degli Smashing Pumpkins, vestiti da signori di Robotech con la bassista in bianco fetish tipo video di Billy Idol. A me, in sostanza, paiono una puttanata. Dei Dirty Three mi ricordo solo Warren Ellis con barba e violino che fa i saltelli con una gambetta in aria sul palco, e questo dice di me più di quanto dica di loro.
In verità vi dico che l’unico concerto del primo giorno ad avermi fatto davvero divertire è quello dei White Stripes, che dal vivo sono una macchina da guerra. A parte che in due sono in grado di tirare su un muro del suono impressionante, sono proprio belli da vedere: lei che suona facendo le faccine di chi sta cantando La bella lavanderina, lui che ha qualcosa come cinque microfoni diversi sparsi su tutto il palco, dei quali uno doppio e stereofonico (che se canta da una parte si sente dalla parte corrispondente), i faretti di colore bianco per lui e rosso per lei, le riprese in bianco e nero nei maxischermi, insomma uno spettacolone. Poi ci sarebbero le canzoni, ma si commentano da sole.
Poi ci sarebbero i Justice, ma le gambe non mi reggono. Ce ne andiamo appena termina il loro set: ed è il secondo anno consecutivo che ci perdiamo Dj De Mierda.
L’ultima scoperta della giornata è che le navette, signoramia, non sono più quelle di una volta: per acchiapparne una (o un taxi, o un autobus, qualsiasi cosa su ruote che ci riporti in centro città) bisogna fare a botte con cento inglesi e spagnoli ubriachi. Vediamo il letto che è praticamente l’alba.

Secondo giorno.
Dal punto in cui lo vediamo (perdendocene un pezzo per vedere i Grizzly Bear in acustico allo stand di MySpace: gente che dentro la gola ha tutto un coro polifonico), Billy Bragg suona tipo cinque pezzi e fa un’ora di monologo. Billy Bragg fa ridere. Non nel senso che è ridicolo, ma proprio nel senso che fa sganasciare: infatti lo dice anche lui, una volta che ha perso la voce al South by Southwest, il suo manager gli ha detto “Don’t worry Billy, nobody comes to hear you sing“. Racconta anche di avere fatto il busker, offre al pubblico la possibilità di scegliere fra una cover di Elvis e una di Dylan, “Iceland wants Bjork. Well, fortunately I was a busker before Bjork invented herself“. E’ una vecchiazza. Lo amo alla follia.
Blonde Redhead medi. Belli, ma medi.
Dentro l’Auditori c’è un uomo seduto di traverso su un palco, con tre signore sedute come dal parrucchiere, altre signore con degli strumenti a corde, e un altro uomo davanti al primo uomo. Lui è Jason Spaceman, e tutta insieme questa cosa si chiama Spiritualized Acoustic Mainlines. Mi tolgo un pezzettino di cuore e lo deposito davanti al palco, come un offertorio.
A mezzanotte siamo davanti al palco ATP. Il palco ATP, per chi non ci fosse mai stato, ha un grande pregio: è l’unico riparato dal vento gelido e umido che proviene dal mare. E’ un palco piccolino, con poco spazio, il che lo rende inadatto ad ospitare i Modest Mouse: che di modesto, a parte il nome, non hanno niente. Isaac Brock si presenta sul palco con una benda sull’occhio: si capirà poi che nasconde un bel lividone da rissa. Dall’altra parte del palco c’è Johnny Marr, la vera ragione per amare gli Smiths, altro che zia Ciuffa. Sono tremendi, tecnicamente perfetti, potentissimi e freddi come il marmo. Me ne vado poco emozionata.
Il fatto che i Girls Against Boys mi piacciano tanto ha delle ricadute in termini di “poi non rompere le palle che non ti piacciono gli Shellac”. Senti. Gli Shellac non sono sexy. E non parlo di facce (potrei, ma non lo farò): parlo proprio di strutture. I Girls Against Boys sono sexy. Gli Shellac no. Pertanto i primi mi piacciono, i secondi mi annoiano. Caso chiuso.
E anche serata chiusa, ché a vedere pure i Built to Spill non ce la faccio. Ci penserà qualcun altro.

Il giorno tre è il giorno definitivo. Il giorno che vale tutti i giorni, il giorno che inizia con un momento così tenero che non lo si può neanche raccontare, bisogna solo vederlo. Kimya Dawson, che ci fa alzare dalle sedie per accoccolarci sotto il palco, che cerca di scendere dal palco perché si sente a disagio lei sola con la sua chitarrina là sopra in questo auditorium gigantesco, che si arrotola intorno la gente in un lunghissimo serpentone abbraccioso, e che canta sottovoce a occhi chiusi canzoncine che sembrano filastrocche e invece parlano di morte e lutto e disperazione e suicidio e sorride sempre, OK, Kimya Dawson che era nei Moldy Peaches con Adam Green, avendoli visti entrambi da vicino si capisce perché siano finiti a fare musica insieme.
Shannon Wright, subito dopo, è brava ma sono ancora tutta coccolosa da Kimya Dawson e non mi va giù bene. Ci vogliono gli Apples in Stereo per riacchiappare l’attenzione: a me ricordano i Fountains of Wayne, a qualcun altro gli Weezer, comunque sono divertenti, pieni di energia, perfetti sotto il sole che picchia. Per la prima volta fa veramente caldo, ma inutile illudersi, la sera farà freddissimo. E sarà comunque pieno di ragazze inglesi smanicate, perché per le inglesi questo è tempo tiepido.
Ci dividiamo per la prima volta: metà a vedere gli Architecture in Helsinki, metà all’Auditori per Robyn Hitchcock con i Venus 3 e Peter Buck alla chitarra. Gli architetti spaccano. Robyn Hitchcock pure. Chi ci conosce appena un pochino capirà chi è andato dove.
Patti Smith fa solo cover. La vediamo da lontano, un po’ distratti, mangiucchiando panini e cercando di riprenderci: la stanchezza accumulata è tanta, e la fine è ancora lontana.
The Good, the Bad & the Queen mi riservano delle piccole gioie. Da Paul Simonon che mi sbuffa fumo direttamente nell’obiettivo della telecamera alla faccia da sberle di Damon Albarn, che fa battute sulla posizione infelice del palco techno. Non è l’unico a lamentarsi del baccano costante. I Sonic Youth, per loro fortuna, ne producono altrettanto, ma gli Wilco, più tardi, scherzeranno a loro volta sul tappeto di tonfi e bassi che invade gli spazi fra una canzone e l’altra. Gli Wilco, peraltro, me li sarei goduti di più se non fossi stata a) disidratata al punto di voler strozzare la gente dietro di me per rubargli le bottigliette d’acqua e b) esausta, che a momenti mi addormentavo in piedi. Insomma, per dissetarmi mi sono persa i bis, e poi ho deciso che tornare verso il main stage con quella maledetta calca non valeva la pena. Meglio beccarmi l’inizio dei Battles, e ballare ballare ballare senza fine, perché chi balla non dorme, e ogni volta che mi sedevo il corpo mi abbandonava.
La metropolitana delle cinque era sgombra, ma fino alle sei e mezza niente letto.

E dal festival è tutto. Il resto, forse, un’altra volta. Ma anche no.

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