Bamboccioni a chi?
pubblicato da Giulia domenica, Ottobre 7, 2007 11:47Quanto ho scritto questo post, che peraltro non si sognava di negare l’esistenza di un’oggettiva difficoltà per i giovani italiani ad uscire di casa (Dio sa che anche qua ci son periodi di magra in cui si prega pure il suo collega Vishnu perché mandi lavoro), mai e poi mai mi sarei immaginata che mi sarei sentita far eco in maniera così pesante e paternalistica da Tommaso Padoa Schioppa. E che il suo “bamboccioni” mi avrebbe fatta innervosire così tanto, specialmente se collegato a provvedimenti di fatto un po’ ridicoli (cinquecento euro all’anno di sgravio sull’affitto? Aaaaa, capirai). Del resto, oh, avendo sfiorato la rissa in diretta con Luca Barbareschi proprio su questo argomento, non si può dire che io stia esattamente su una piattaforma di indifferenza o sufficienza. Se dite “precario”, anche io dico “presente”.
Deve essere un po’ il principio secondo cui i neri d’America fra loro si chiamano nigger, e gli omosessuali “frocio”, ma se lo fa qualcuno che non appartiene al loro gruppo si incazzano. E giustamente, pure: perché le parole mutano significato a seconda di chi le usa. Pertanto, se uno di noi dice “Avanti, bamboccioni, uscite da casa” gli applausi sono tanti quanto i fischi. Perché è un grido di battaglia, non una considerazione di disprezzo: è un incitamento a remare stando tutti nella stessa fragile barchetta.
Se invece a darci dei bamboccioni è, metaforicamente parlando, l’armatore della suddetta barca, allora sì che scattano le pernacchie (tra le quali, come sempre, una delle più sonore e prolungate è quella di Leonardo). Perché non se lo può proprio permettere: sono loro ad averci sbattuti sulla bagnarola piena di falle, e adesso pretendono che facciamo la traversata sereni e senza protestare. Anche se è più il tempo che passiamo a buttar fuori acqua con i secchi di quello che passiamo a calcolare la rotta e andare in direzione della terraferma.
Fuor di metafora, ci sarebbe una legge sul lavoro da rivedere radicalmente, con l’istituzione di minimi salariali garantiti, obbligo di assunzione per determinate figure, controlli capillari dell’ufficio del lavoro. Bisognerebbe fare un sacco di cose, e se fossi un giuslavorista avrei un bel po’ di idee su come costringere le aziende a pagare adeguatamente la gente. Il problema è che in Italia si gioca sempre a fare quelli che ce l’hanno più grosso, in questo caso il PIL; senza contare che un PIL più alto non significa necessariamente ricchezza o benessere. Significa solo che c’è gente che si mette più soldi in tasca, più spesso che no sottopagando chi li mette nelle condizioni di guadagnarli, quei soldi.
Tutto questo però non viene minimamente considerato. Anzi, siamo bamboccioni perché ci ostiniamo a rimanere a casa e a non fare figli nonostante i nostri ricchissimi cinquecento euro al mese da doppi turni al call center. Vero, in molti (non moltissimi, invero, ma molti) preferiscono il comodo alveo della casa paterna pur avendo a disposizione stipendi decenti. E’ un modo per risparmiare qualcosa in vista dell’acquisto di una casa, dicono; ed essendo in ottima compagnia, non spiccano, non sono dei paria sociali, non sono Tanguy. Sono come tanti altri. Gli altri non crescono perché non gli viene concesso: perché aspirano a qualcosa di meglio del call center, avendo una laurea in tasca; perché in certi posti non c’è neanche il call center; perché chi lavora tre mesi qua due là sei laggiù può avere dei problemi a mantenersi; perché a volte non c’è proprio nulla al di sopra del caporalato o degli interinali infiniti.
Se fossi un giuslavorista mi sarei accorta da un pezzo che la situazione attuale non genera solo infelicità: sta letteralmente paralizzando il progresso del paese.
In caso non fosse stato detto abbastanza, non saranno cinquecento euro in meno l’anno a farci conquistare l’indipendenza, paparino. Fate scucire più soldi agli imprenditori che finora avete difeso, e poi ne riparliamo.