Giorno 3 – Big Star, Shellac, Undertow Orchestra, Brian Jonestown Massacre, Violent Femmes

pubblicato da Giulia martedì, Giugno 6, 2006 13:59
Aggiunto alla categoria Muziek non stop
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I Big Star iniziano alle sette. Vado, e girello intorno al palco per prendere qualche establishing shot, prima di infilarmi nella buca dei fotografi e documentare il ritorno di (uno scheletrico) Alex Chilton e soci. Insomma, il giorno prima ho finito asciugandomi dalla faccia lacrime felici. Non posso mica chiedere tanto di più. Quello dei Big Star è un concerto che si può sentire benissimo dal prato dell’area stampa, che ha la sola controindicazione di essere il punto più ventoso di un festival già di per sé ventosissimo.

Gli Shellac all’Auditori ci danno una scusa di ferro per ripararci un po’ dal freddo, e offrono uno spettacolo fra i più insoliti di questo festival: gente in piedi sulle poltroncine, gente in piedi sul palco, gente in piedi dappertutto, e un baccano assurdo ma articolato che squassa tutto. Suonano ben più del tempo loro concesso, si allargano in un question time con il pubblico (“Do we like you? Yeah. But it’s not fair to ask us if we like you, ‘cause you know we’ll say we do. This is the first time the audience’s ever asked us to compliment them!”), e se ne vanno lasciando tutti soddisfatti. Almeno si spera, perché è il turno della Undertow Orchestra. C’è bisogno di quiete, silenzio, raccoglimento e sedili sgombri.

Dave Bazan (Pedro the Lion, per capirci, chitarra e batteria), Mark Eitzel (American Music Club, chitarra acustica e barba ursina), Will Johnson (mai visto prima, ma ehi, un grande, chitarra e batteria anche lui) e Vic Chesnutt (con un cappellino che lo fa sembrare il pescator che pesca ravanei remulass barbabietule e spinass, al basso-che-a-me-sembrava-una-chitarra-perché-sono-cecata) tengono il palco con un concerto che sembra mezzo improvvisato, almeno nell’ordine dei pezzi – ogni canzone una pausa di due minuti per decidere cosa fare – e che supera ogni aspettativa, anche quelle inesistenti. Con tanto di finale singalong “uuuh-uuuh-uuuh-uuuh-uuuuuuuuh” sulla canzone allegra che parla di divorzio. Coda: scopriremo più tardi che i quattro uomini sul palco sono anche parte di un’etichetta, e che la Undertow Music ha pubblicato uno dei miei dischi preferiti del 2005, Hello My Captor degli Amazing Pilots.

Un frammento di Lou Reed (basta, basta, basta, vai via e torna senza il maestro di t’ai-chi che si agita sul palco, santiddio), e poi si migra verso un altro di quei gruppi che si conoscono per sentito dire e che richiamano per curiosità.

Si chiamano Brian Jonestown Massacre e una volta erano amici fraterni dei Dandy Warhols, mi racconta il socio mentre camminiamo verso il luogo del concerto. Poi è arrivata la Vodafone a prendersi Bohemian Like You. Anton Newcombe, leader del gruppo, non ha perdonato a Courtney Taylor-Taylor l’esplosione mondiale. Fine dell’amicizia, accuratamente documentata dal film Dig!, da cui Newcombe esce dipinto, essenzialmente, come un povero stronzo strafatto.
Dal punto di vista musicale, stiamo parlando della versione psichedelica dei Dandies (quelli di Hard-on for Jesus, tanto per fare un esempio tratto dal loro album migliore). Il colpo d’occhio però è divertente. Da lontano, non si capisce subito chi sia Anton Newcombe: davanti al microfono a centro palco c’è un tizio con favolosi favoriti da lupo mannaro, che agita vezzosamente un tamburello. Poi ti avvicini, e capisci che il cantante è un altro, è quello che regge la chitarra: l’Uomo Lupo sta sempre nei dintorni del microfono, sempre come se dovesse cantare, ma non canta. Mai. Non emette una nota. Agita il tamburello. Guarda il microfono. Non canta. Dai, adesso canta. No, non canta. Niente.
Un genio.

Sui Violent Femmes si è aperto un dibattito. Ora, io ammetto di averli visti in piena modalità nostalgia-dei-vent’anni-sfigati. Quando ho scoperto i Violent Femmes ero all’università, le mie compagne di corso si scopavano i marinai delle portaerei americane che attraccavano a Trieste, e su queste fugaci liaison costruivano infiniti struggimenti romantici. Io cantavo Add It Up. Poi andavo a farmi spezzare il cuore da altri compagni di corso che non mi si filavano. E cantavo Kiss Off.
Ecco.
Forse per questo il concerto in stile “karaoke with Violent Femmes” non mi disturba più di tanto. Il socio, deluso, preferisce guardare me che ballo e mi sgolo. Dice che trasmetto più gioia dei musicisti. Probabilmente è vero, ma quando mi ricapiterà mai di esplodere in un corale “For everything! Everything! Everything! Everything!”, nella mia vita? Mi sono divertita. Ci sono cose che non si possono simulare, e altre che non si possono dissimulare. Certo, avrei fatto a meno degli assoli di basso e batteria. Certo, la base con il Mac su una canzone mi ha fatto rabbrividire: i Violent Femmes sono analogici, non digitali. Ma… insomma… “For everything! Everything! Everything! Everything!

Ecco, vorrei chiudere qui. Di base, perché dopo ci sono stati gli Stereolab, che da dieci anni tento inutilmente di farmi piacere, che piacciono a tutti, che sono lodati da tutti, e lo stesso mi annoiano da morire. Ma anche perché durante gli Stereolab mi sono addormentata sulla spalla del socio con la bocca aperta. E quando ti addormenti è un buon momento per riprendere la navetta. Un’ultima volta. Guardandoti indietro, perché tanto l’anno prossimo si torna. Forse. Sicuro. Non so.

In ogni caso, è un arrivederci.

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