Giorno 2 – Yeah Yeah Yeahs, Jens Lekman, Richard Hawley, Dinosaur Jr, Flaming Lips
pubblicato da Giulia martedì, Giugno 6, 2006 13:50Il secondo giorno è il più difficile da raccontare, non per mancanza di materiale, ma per il suo esatto contrario. Si attacca alle sette con gli Yeah Yeah Yeahs. Karen O sfoggia il solito abbigliamento all’incrocio fra il clown e la battona, che addosso a lei sono i “vestiti di Karen O”, come la guépiere a cono è la “guépiere di Madonna”. L’imitazione è caldamente sconsigliata, e ovviamente diffusissima fra le spettatrici presenti, tra le quali un gruppo di almeno cinque ragazze intente a passarsi il rossetto sulle labbra a vicenda, ignare o noncuranti della presenza a bordo palco di Wayne Coyne, già vestito con “la giacchetta di Wayne Coyne”.
A questo secondo giorno di festival si comincia anche a capire che il trend della moda femminile prevede la gonna svolazzante, meglio ancora lo scamiciato anni ’50 o originale vintage anni ’70, che nei negozi di Barcellona vengono via per meno di trenta euro. Le più modaiole non si fanno scoraggiare nemmeno dal vento a lama di rasoio che obbliga le più freddolose (qui, qui, sono qui) ad infagottarsi in un casaccone di pile.
Al di là delle indicazioni sartoriali, gli Yeah Yeah Yeahs sono grandi. Potrebbero diventare enormi se diversificassero un po’ la loro offerta (quante volte in un concerto di un’ora è lecito che Karen O simuli una fellatio con il microfono/un orgasmo/un attacco d’asma?). E poi non hanno suonato Bang.
Fermata successiva, Jens Lekman e la sua band di sole donne, tutte rigorosamente aderenti alla regola dello scamiciato anni ’50. Lekman è Lekman, e le sue canzoni non tradiscono: sono micro-racconti di vita, vera o verosimile non importa, spesso esilaranti, accompagnati da arrangiamenti che ridisegnano i contorni del twee pop spingendolo verso la canzone confidenziale. Il riferimento è il Bacharach più gioioso e saltellone. Molte gonnelline svolazzano.
Richard Hawley, subito dopo, richiamerebbe invece il Bacharach più malinconico e contemplativo, se non fosse per le sapidezze da stadio che intervallano i pezzi (“Do yer wanna be with us or do yer wanna be with them? They’re shit! We’re good!” Resterebbe da chiarire se con “them” ci si riferisse a Isobel Campbell, ai goticissimi Killing Joke o al concorrente diretto Stuart Staples). Un bel concerto, che però devo ammettere di avere visto da lontano. Servono energie, per affrontare il dinosauro.
J Mascis è invecchiato in maniera spaventosa, al punto che in area stampa l’avevo incontrato senza riconoscerlo. Nel giro di neanche quindici anni, i capelli gli sono diventati completamente grigi, e ha messo su qualcosa come quindici chili, dei quali quattro di doppio mento. Sembra la fusione cromosomica di Gandalf e Tad. Il pensiero va a Mark Arm, Stephen Malkmus e Wayne Coyne, che con l’età, se non ci hanno addirittura guadagnato, di sicuro non ci hanno perso moltissimo.
Vecchiaia precoce o meno, i Dinosaur Jr infrangono la barriera del suono girando le manopole sul dieci. Mascis è impossibile da fotografare: la macchina cattura unza sventagliata di capelli, una mano che si muove freneticamente sulle corde, una gamba sfuocata. Lou Barlow è concentrato e teso, il contrario esatto della versione rilassata e bonaria di se stesso che ha portato in scena al Circolo degli Artisti non molto tempo fa. Murph, a occhio, è Murph: mancano i capelli, ma per il resto, ehm, Murph è Murph. Mi spaccano le orecchie e il cuore, e tutto senza neanche toccare Where You Been.
Uso le Sleater-Kinney per riprendermi dal botto emotivo. Non mi hanno mai entusiasmato, anche se riconosco loro una valenza simbolica meglio articolata dal mio socio. Sulle gradinate antistanti il palco, lotto contro il peso della stanchezza e aspetto il momento della purificazione. Ho un debito da saldare.
Se non fosse stato per il socio, non avrei mai conosciuto, capito e tantomeno apprezzato i Flaming Lips. Insieme all’alt country, sono il grande regalo musicale che mi ha fatto, andando contro le mie resistenze di vecchia indierockeuse traviata dal Britpop. Sono in debito con lui e con i Flaming Lips, che ho ignorato per troppi anni. E sono pronta a celebrare la mia riunione nel loro spirito.
Babbi Natale e aliene sul palco. Wayne Coyne che sale per testare gli strumenti e giocherella con la gente già radunata a ridosso delle transenne, lanciando in aria manciate di coriandoli. Tutti sono mascherati, tranne lui, l’Uomo con la Giacchetta, vestito di tutto punto ma con il papillon slacciato, come se tornasse da una festa di matrimonio particolarmente riuscita e Capitan America, Wonder Woman, Superman, le aliene e i Babbi Natale fossero i prodotti delle sue liete allucinazioni.
Quando parte, quando tutto inizia, a due minuti dalla prima nota suonata, reggo la telecamera con una mano, e con l’altra guardo sotto il display, piangendo di gioia. I bambini non piangono di gioia. Solo gli adulti percepiscono il conflitto fra la bellezza e la miseria della vita, e piangono per l’eccesso di una o dell’altra. Da un po’ di tempo sto diventando grande, e mamma, Wayne Coyne mi ha fatto piangere. Con le lacrime vere e il trucco che cola sulla faccia, e una risata perpendicolare al pianto. Il filmato sarà venuto un po’ mosso. Quello che è venuto, visto che i palloni che mi cadevano addosso hanno fatto saltare la registrazione due volte, mangiavo coriandoli, e non avevo voglia di riprendere, volevo cantare. Quando il braccio ha cominciato a farmi troppo male, ho spento tutto e cantato. Yoshimi Battles the Pink Robots, ufficialmente la prima canzone dei Flaming Lips che io abbia mai veramente amato. Tuttora una delle mie preferite (ma me ne mancano, di dischi da ascoltare).
Coriandoli, stelle filanti, bacchette magiche, la telecamera fissata al microfono che riprendeva e ingigantiva la faccia dell’Uomo con la Giacchetta, “Gracias!” detto con la voce di Topolino (Steven), lo scheletro che suona la chitarra (Mike).
E’ durato troppo poco. Troppo poco.