Il groppo in gola
pubblicato da Giulia mercoledì, Gennaio 9, 2008 20:14Quando si parla di aborto, si cerca sempre di metterci dentro la parola “sofferenza”. E’ una cautela dialettica inevitabile: far passare, anche solo vagamente, l’idea che una donna abortisca con meno che la massima sofferenza possibile è pericolosissimo. Se si pensasse, anche solo lontanamente, che interrompere una gravidanza possa risolvere un problema, anziché crearlo, allora sì che la 194 sarebbe seriamente a rischio.
Non si riesce nemmeno a tollerare l’idea che una donna non soffra, sia chiaro. Dal biblico “partorirai con dolore” a cui tengono fede gli operatori sanitari che si oppongono all’epidurale, in nome del parto naturale (come se fosse “naturale” partorire in un ospedale, sdraiate su un lettino, con un monitor che rileva il battito del cuore del feto, e una squadra di medici pronti ad intervenire in caso di complicazioni) fino all’interruzione di gravidanza, siamo nate per soffrire. E se quella gravidanza, iniziata per sbaglio, per stupro o per malfunzionamento del contraccettivo, non la vogliamo e desideriamo interromperla, dobbiamo farlo con dolore, con trauma, con sofferenza. Dobbiamo portarne la colpa e il peso, perché se non fossimo puttane dentro, non avremmo mai fatto sesso. Saremmo state responsabili. E chi non è responsabile (i.e. non tiene le cosce chiuse) deve pagare. Abortendo con sofferenza; oppure portando a termine la gravidanza e dando via il bambino, perché una volta che hai accettato di farti crescere in pancia un essere che non volevi, una volta che hai perso il lavoro e la tua vita, una volta che per nove mesi l’hai nutrito del tuo cibo, sentito agitarsi, sperimentato il legame letteralmente viscerale che ti unisce a lui, dovrai lasciarlo andare. Oppure tenerlo, e non sapere come cavartela.
Ci sono un milione di motivi per cui una donna decide di non dare la vita. Si fa presto a dimenticarsi che il concepito, entro un certo limite, non sempre diventa bambino: il suo essere vita è così tenue che basta un niente, un soffio, per ridiventare materiale inerte. La vita che si autoelimina, che finisce nel gabinetto, in un ciclo più pesante degli altri. La vita che, anche quando concepita fuori dal corpo della donna, non sempre attecchisce e diventa bambino. Che vita è, una vita che non vive?
Costa fatica accettare l’idea che una donna possa avere il diritto di non portare avanti una gravidanza. C’entra la religione, certo, ma c’entra anche l’idea radicata che siamo tutte peccatrici, fatte a forma e somiglianza di un Dio minore, destinate a fare le madri e quindi obbligate a procreare anche contro la nostra volontà. Oppure possiamo scegliere fra la castità, una sessualità limitata e superficiale, e un senso di colpa e di paura perenne. Questo vorrebbero per noi quelli che vogliono ridiscutere la 194, mettendo davanti a noi, vive e qui, la possibilità di vita che è l’embrione.
Non valiamo niente, e quello che ci coinvolge non ha lo stesso peso e la stessa importanza di quello che coinvolge un uomo. Se la legge 40, invece che riguardare la fecondazione medicalmente assistita, avesse riguardato la castrazione obbligatoria di tutti gli uomini sopra i 50 (perché di legge crudele e infame si tratta, non prendiamoci in giro), avreste ben visto i parlamentari in armi: il loro preziosissimo sperma, la loro infallibile mascolinità! L’integrità dei loro corpi!
Non valiamo niente, e ce ne siamo fatte convincere, al punto che al referendum non ci siamo andate, e adesso ci stiamo facendo passare sopra col rullo compressore da un esercito di maschi in sottana che sostengono di praticare la castità. E ci apriamo a ridiscussioni ridicole, che non avvengono in alcun paese civilizzato.
L’aborto legale esiste. La legge 194 ha fatto calare il numero totale di aborti e fatto scomparire gli aborti clandestini. E’ una legge buona. Ha fatto diminuire la sofferenza delle donne. Forse per questo, e solo per questo, la si vuole eliminare.
Parole complicate » Blog Archive » L’aborto e il valore del silenzio says:
Dicembre 26th, 2008 at 10:15
[…] anche più) dolorosamente, finire. Che è lei che soffre, insomma, come dicono pure Giulia. e un Facci da applauso. I diritti in gioco sono diversi. I titolari di questi diritti, due, forse. […]